Vieni. Eccomi allungato sulla poltrona, a comodo tuo. Vieni a schiacciare un sonnellino sulle mie ginocchia, come ogni giorno.
Mi sarei mai sognato; un anno fa, che avrei preso l’abitudine di far la siesta con un cane?
Poichè compie l’anno appunto in questi giorni che il mio figliuolo lo portò in casa rinvoltato in un mezzo giornale come un piccione arrosto, e lo posò qui sull’impiantito, dove mi fece sorridere la prima volta, dopo molto tempo, con la sua impostatura di ranocchio, dondolandosi sulle gambe deretane allargate, bianco e rotondo come una palla di cotone. Povero Dick! Tolto, appena spoppato, a sua madre e ai suoi fratelli, e portato in questa casa colpita dalla sventura, parve che egli capisse subito perchè l’avevamo preso e che cosa aspettavamo da lui. Non si spaventò della casa sconosciuta, non si lagnò della sua solitudine, e rispose subito alle nostre carezze con dimostrazioni d’ affetto, facendoci presentire fino dal primo giorno che sarebbe diventato per noi, non solo una distrazione gradevole, ma una compagnia e un conforto, e che col tempo, per quante cure gli si fossero usate, se si fosse conteggiato il debito reciproco della gratitudine, sarebbe rimasto lui il creditore. Sì, caro Dick: tu non sei più un cane per noi: sei un amico. È sei proprio quello che ci voleva per la nostra casa: un amico che non parla e non ride. Non mi badare; non parlo che tra me; dormi pure.