A cinquantatré anni Laura aveva imparato a conoscere le abitudini che le davano sicurezza. La sua vita si muoveva dentro binari precisi, come un treno che non conosce deviazioni: la casa in periferia con il piccolo giardino di rose, il lavoro da bibliotecaria in una scuola superiore, le visite settimanali ai genitori anziani, i pranzi della domenica con sua sorella e i nipoti. Non si poteva dire che fosse infelice, ma nemmeno che lo fosse davvero felice. Si trattava piuttosto di un equilibrio quieto, rassicurante, un ritmo di giorni che si assomigliavano l’uno all’altro senza scosse, senza sorprese.
Laura era stata sposata a lungo. Il suo matrimonio con Carlo era durato più di venticinque anni. Non era mai stato un legame travolgente, ma basato sul rispetto e su un affetto fatto di piccoli gesti quotidiani. Quando lui si ammalò e morì, cinque anni prima, Laura sentì di avere perso una parte della sua storia più che l’uomo della sua vita. Non rimase travolta dal dolore come accade a certe vedove, ma da una sorta di silenzio interiore, di sospensione. Si disse che forse l’amore, quello romantico e intimo, era ormai alle sue spalle e che le restava soltanto da vivere il tempo che le rimaneva nel modo più sereno possibile.